A caccia del virus

Intervento della prof.ssa Stefania Stefani, ordinario di Microbiologia generale del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche dell’Università di Catania

 

L’evoluzione di SARS-CoV-2, il virus responsabile del Covid-19 identificato a Wuhan nel 2019, nel suo percorso pandemico, ha accumulato numerose mutazioni soprattutto nell’ambito del gene responsabile della proteina S (spike) che media l’aggancio e la penetrazione del virus all'interno della cellula.

Alcune mutazioni sono definite “silenti”, non comportano cioè alcuna modificazione, altre hanno portato alla diffusione di “varianti” che, in linea generale, posseggono una maggiore fitness verso l’ospite, risultando – alla luce delle attuali conoscenze - più trasmissibili quindi con maggiori possibilità di replicare e acquisire altre mutazioni.

Ad esempio il ceppo originale isolato a Wuhan è già stato in gran parte soppiantato in tutto il mondo da un ceppo più infettivo, caratterizzato dalla sostituzione amminoacidica D614G nel gene spike, già durante la prima ondata pandemica (marzo 2020). Il ceppo così mutato ha mostrato una maggiore capacità di entrare all’interno delle cellule e di replicarsi nelle vie aeree dell’ospite rispetto al suo progenitore, dando contezza del suo successo.

Alla luce di quanto detto e con la consapevolezza che siano comparsi in tutto il mondo focolai epidemici numericamente importanti, diventa fondamentale studiare e monitorare la comparsa di queste varianti con carattere di elevata trasmissibilità.

Ad oggi sono state identificate diverse varianti di SARS-CoV-2 (le principali sono 7 secondo un recente documento dell’ECDC) tutte derivanti dal ceppo con la mutazione D614G (presente quindi in ciascuna delle varianti) e che hanno accumulato diverse mutazioni nell’ambito della proteina S. Tra queste, le varianti epidemiologicamente importanti sul territorio nazionale sono la B.1.1.7 segnalata per la prima volta nel Regno Unito, la B.1.351 / 501Y.v2 isolata in Sud Africa e la P.1 proveniente dal Brasile.

La variante inglese, la più isolata al mondo, annunciata a dicembre 2020 e probabilmente emersa a novembre dello stesso anno, è caratterizzata dalla presenza delle sostituzioni N501Y, A570D, P681H, T716I, S982A, D1118H e dalla delezione alle posizioni 69/70 e 144 nel gene spike. La variante sudafricana è stata scoperta pochi giorni dopo la B.1.1.7 su campioni raccolti tra marzo e novembre 2020 e presenta anch’essa la mutazione N501Y e altre sostituzioni peculiari: D80A, D215G, E484K, N501Y e A701V. Infine, la variante brasiliana è emersa nel febbraio 2020 ed è associata alle mutazioni E484K, K417N e N501Y.

In questo scenario, soprattutto se i pazienti fanno parte di un cluster epidemico o non rispondono alle terapie, i laboratori non dovrebbero limitarsi a riportare la positività di un paziente alla Covid-19, ma dovrebbero cercare di identificare la presenza di mutazioni già note, ma anche sconosciute, almeno nel gene spike di SARS-CoV-2.  Ricordiamo comunque che stanno cominciando ad apparire mutazioni anche all’interno di un altro gene importante per la replicazione del virus e cioè il gene N.

La necessità di sequenziare i genomi virali è diventata di primaria importanza anche per la Regione Siciliana che attraverso l’Assessorato alla Salute ha investito i laboratori di riferimento regionali dell’incarico di sequenziare per ricercare le varianti più importanti.

Per quanto riguarda l’Università di Catania e l’Azienda ospedaliero-universitaria “Policlinico”, la tecnologia presente al Centro Servizi BRIT e le competenze dei nostri giovani ricercatori universitari (Nicolò Musso, Stefano Stracquadanio e Dafne Bongiorno, assieme a Dalida Bivona e Paolo Bonacci) del Laboratorio di Microbiologia Molecolare (MMAR coordinato dalla prof.ssa Stefania Stefani) del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche (Biometc), hanno immediatamente affiancato il Laboratorio di riferimento del prof. Guido Scalia nel difficile lavoro di ricerca delle “varianti”.

Il team dell’Università di Catania, con a capo la prof.ssa Stefania Stefani, si avvale delle competenze di diversi giovani post-doc e procederà utilizzando metodiche di sequenziamento in elettroforesi capillare e Next Generation Sequencing NGS.

Team prof.ssa Stefania Stefani

Il team di giovani ricercatori dell’Università di Catania

In breve la ricerca mediante sequenziamento in elettroforesi capillare delle varianti di SARS-CoV2 è una metodologia molto complessa che si basa su principi di “selezione clonale del RNA virale” amplificazione e marcatura. Nonostante la tecnica si basi su principi ampiamente conosciuti, il sequenziamento della porzione virale di interesse si pone ai limiti biochimici e di sensibilità di tutto il workflow, perché a differenza di altre tecniche più sensibili, ma non flessibili, questo sistema ci permette di vedere sia gli SNPs (mutazioni di singolo nucleotide) caratterizzanti le varianti già identificate, sia tutta la porzione HotSpot del gene spike. Questa tecnica quindi seppur complessa e non di routine, è in grado di dare una serie di informazioni necessarie per comprendere come il virus reagisca alla pressione selettiva del sistema immunitario e farmacologico. 

Al termine dell’intero workflow il team è in grado di sequenziare l’intera porzione Spike di SARS-CoV-2 e di identificare le principali varianti.

Il sequenziamento della singola porzione del gene Spike di SARS-CoV2, seppur utile all’identificazione delle varianti del singolo gene (in questo caso S) non è però sufficiente alla scoperta di nuove mutazioni disseminate lungo tutto il genoma virale e alla mappatura filogenetica degli stessi.

Next Generation Sequencing NGS verrà da noi utilizzata per sequenziare l’intero genoma virale (circa 30mila bp, paia di basi in una singola reazione). Lo strumento utilizzato dal nostro team è in grado di sequenziare 22 campioni in 16 ore con una profondità di lettura di ogni singola base di circa mille volte.

Per dare un’idea delle differenze tra le due tecniche, basti pensare che il metodo classico permette di sequenziare - in singola lettura – e cioè circa 2 ore, 2.400 bp, la tecnica NGS 66mila bp cioè centinaia di volte superiore.

L’applicazione di una tecnica high-throughput in una situazione di emergenza pandemica, permette una velocità di conoscenza scientifica pari quasi a quella del virus di adattarsi alle diverse condizioni ambientali.

Prof.ssa Stefania Stefani, ordinario di Microbiologia generale del Dipartimento di Scienze Biomediche e Biotecnologiche dell’Università di Catania